DIS-CRIMINE
(di Età Beta due)
Il cielo cupo
assumeva la diafana tinta traslucida dell'azzurro di un ghiacciaio, quando il
suo guanto accarezzò il pomo d'ottone e aprì la porta.
Nessun
rumore. Era solida, pesante alla spinta, ma scivolava perfettamente sui vecchi
cardini. Trent'anni, gli venne in mente di calcolare, sette bisestili, due
uscite al giorno, due rientri, 43.828 rotazioni, non avevano consumato i perni.
Il muto,
morbido contatto col fermaporta imbottito arrestò la porta prima che sbattesse
fragorosamente contro il muro.
Nella
penombra la sua silhouette si stese davanti a lui sulle vecchie cementine del
pavimento. Odiava quel giallo-tuorlo impastato di cere e ricordi. Le iridi si
allargarono ad abbracciare, avanti a destra, l’istallazione, un'alta struttura
ottagonale, un traliccio di legno, sormontato da quattro telecamere che lo
fissavano. Era stato lui il responsabile dell'acquisto. Tutto appariva così
lontano. Difficile reimpossessarsi della sensazione esaltante della passione avuta
per l'arte contemporanea.
"Se queste
telecamere fossero veri strumenti di sorveglianza starei firmando la mia
condanna", pensò.
Il traliccio
artistico se ne stava nel suo angolo, tra la porta dello studio e l'accesso al
corridoio, come a pararsi le spalle. A ben ragione.
A sinistra,
invadente, a tutta parete, una classicissima étagère che non gli apparteneva
affatto. Una mostruosità di mensole e balaustrini, popolata da Sèvres e
Capodimonte che si inseguivano da piano a scomparto. Tutt'altro mondo,
inchiodato lì da sempre da una mano non sua.
Ora lui era
lì. Tra passato remoto e passato prossimo. Traliccio e Étagère guardandosi in
cagnesco, gli urlarono tra i denti all'unisono: "O lei o me." "O
lui o me." E insieme: "Non c'è posto per tutti e due. Devi
decidere".
Tenne la
decisione per sé. Accompagnò la porta. Nel chiudere, ruotò la maniglia, trattenne
il chiavistello per non farlo scroccare e lo fece scivolare dolcemente nel foro
della serratura, silenziosamente.
L'oscurità
riguadagnò il terreno, ma non del tutto. I vecchi scuri dello studio lasciavano
trapelare sottili lingue di luce ghiaccio biancastra. Lui poteva muoversi anche
senza guide luminose. Imboccò il corridoio a destra. Calcolò mentalmente. Tre metri per superare
la sua stanza più uno per la porta della stanza di lei, diviso 60 centimetri di
ogni passo, erano 6-7 passi. "L'ultimo, più corto lo doserò cercando la
maniglia a tentoni."
Il corridoio
era spoglio. Era stata una guerra fare staccare dalle pareti uno ad uno i
quadretti da madonnari, gli specchietti veneziani, le foto della progenie
familiare da ripercorrere a ritroso come salmoni verso il primo fecondatore.
Avrebbe potuto cantar vittoria ma, protette dai vetri scorrevoli, le mensole
nelle nicchie, sopravvissute all'iconoclastia, si animavano ancora di ostili
figurine, teiere d'argento, vasetti di Boemia, bamboline etniche.
Proprio lei, l'olandesina di bisquit, un po' di sbieco in mezzo alle altre, quando lo vide si mise ad urlare l'allarme, come una zombie indemoniata. I coperchi come cimbali indiani le fecero eco, i cristalli seguirono tintinnando, le tazzine chiocciolarono, tutti cercarono di fermarlo percuotendo i vetri di protezione.
Quattro, cinque, sei passi, cercò, in assoluto silenzio, la maniglia e girò piano. Stavolta non riuscì ad evitare il gemito: era sempre stata stridente. Da ragazzo aveva un bel sonno pesante, ma al mattino il cigolio della porta lacerava i suoi sogni prima ancora che Lei venisse amorevolmente, inesorabilmente, ossessivamente, sadicamente, a svegliarlo. "Su, bello, su! Su, bello, su!"
"L'avrei uccisa" pensò. Ebbe un sussulto a sentirselo dire. Di certe cose
meno si parla meglio è.
Dentro la
stanza Lei era nel suo letto supina. Il rumore non l'aveva svegliata. Solo per
lui quel suono si collegava ai neuroni del risveglio. Un fragore di sega
bagnata si diffondeva regolare dalle narici della donna alla stanza. Sembrava
far vibrare le gocce del lampadario che scomponevano in arcobaleno le lamine
perlacee che si intrufolavano sempre più tra ante e infissi, minacciando di
spalancarli.
Davanti a
lui, tra gli armadi muschiosi, il tavolo di comando. Da quella postazione
brevi, perentori, incontestabili ordini avevano sempre deciso, inesorabilmente,
la sua sorte.
Sotto le
cimase roccocò dei due “armoire”, dietro gli specchi molati delle ante, c'era il
mondo di travestimenti che trasformava la bambola ronfante, informe nel letto,
in madre, istitutrice, donna d'affari, pettegola, seduttrice, madrina o prefica:
inaspettate e sconcertanti mutazioni. Tutta una vita rinchiusa in due cassoni
da teatrante. Non c'era stato abito che una volta entrato fosse mai uscito di
lì. Tutto protetto da quelle tavole di noce che lo avevano visto nascere e che sarebbero
state qui anche dopo di lui.
"A meno
che non dia fuoco a tutto." Si disse accennando un bieco ghigno.
Aprì un'anta. Rispose con una smorfia all'odore di chiuso, un po' naftalina, un po' Chanel e un po' polvere di tarlo. Passò la mano tra gli abiti come sfogliando pagine.
Riconobbe la cerniera del vecchio copriabiti
del tailleur delle visite. Il ricordo gli apparve nitido. Aveva sbagliato a
parlarle mentre lei stava per uscire. Ma non c'era mai un momento buono e lui
aveva l'urgenza di un bambino, aveva scoperto di avere un talento. Di ritorno
dal campo scout padre Giacomo gli aveva messo gli occhi addosso. All'oratorio
lo chiamava e voleva fosse lui a servir messa. E non erano messe ordinarie le
chiamavano messe beat. Accompagnati da chitarra si cantava e lui era uno dei
prescelti, il solista. "Mamma mi compri una chitarra voglio diventare un
cantante", le disse speranzoso. "Ma per carità! Che brutto ambiente!"
Rispose secca. E uscì. Non una domanda sul perché. Nessun interesse a sentire
almeno se fosse bravo a cantare.
La gonna
rosa scampanata che portava quando voleva star comoda. Una volta, una sola
volta, lui invitò a casa, due amici di oratorio, Angelo e Fiorenzo. “Non portare
più a casa gente che non si sa nemmeno di che razza è.” Sentenziò dopo che se
ne furono andati … ed erano tutt'e due italiani!
Un altro
abito, un’altra pagina. Cinque anni dopo, alle prese con le intricatezze
dell'aoristo, nel ginnasio non scelto, tornò alla carica. "Non mi piace il
greco, mamma, io voglio andare al liceo artistico". "Ma che, sei una femmina?" Lo
raggelò creandogli sgomento per l'intreccio che gli si palesava tra i suoi
desideri educativi e non.
Poi l'estate
del '77. Maturo e maggiorenne, Lei gli chiese cosa volesse fare all'università.
"Ho
deciso, mamma, farò il DAMS."
"Con
quel fisico potresti mai fare l'attore? E allora pensa a studiare una cosa
seria."
E così fu
legge. Poi il posto in banca per raccomandazione.
Sul lavoro
aveva conosciuto Greta. Filavano, come si diceva allora. Ma fece l’errore di
portarla a casa. Erano le otto di sera e lui galante si preparò a
riaccompagnarla. “Marco, resta qui con me, se no devi tornare a casa da solo.”
E Greta allora? Lei poteva, anzi doveva, andarsene sola di notte? “Che
crepasse!” Sembrava dire implicitamente la dolce mammina. Che imbarazzo! Non
seppe spiegarsi. Lei se ne andò da sola e il flirt si raffreddò sul nascere.
Uno dopo
l’altro, il suo animo aveva disceso i gradini della resa e del risentimento che
ora lo agitava.
Girò intorno
alla scrivania e si sedette nella spigolosa poltrona a trono. La madre l'aveva
lasciata discosta, un po' obliqua, quando aveva smesso di lavorare. Era così
pesante che era più comodo così, pronta ad accoglierla l'indomani.
Le mani
afferrarono i pomoli dei braccioli. Il potere delle decisioni prese, col culo
su quel sedile, penetrò dai pomoli ai palmi e poi su, attraverso polsi,
braccia, spalle, per risalire lungo la nuca al cervello e scendere coi dorsali
al chakra Mulandhara. Sì, avete capito bene: avvertì risvegliarsi un eccitamento dietro la patta. Si sentì su di giri. Avrebbe smesso di subire.
"Allora è fatta. La decisione è presa."
Il
tagliacarte era lì davanti ai vecchi calamai mai usati. Tutto in ordine. L'
ordine di Lei, il vecchio ordine. Serrò i denti. Afferrò il manico con la mano
guantata e strinse il pugno fino a farsi male.
Tornò in
piedi e si mosse lento verso lo stretto letto a baldacchino. Gli fece venire in
mente la stravagante e metaforica stanza monastica di D'Annunzio. “Uccidere il
vate, salvare l'Italia dalla sciagura. Prendere il potere proletario”, pensò.
Lei era
sempre lì inerme e ronfante. Avrebbe potuto quasi crederla inoffensiva, fragile
e innocente. Sul pesante comodino di legno intarsiato, con lo sportello basso
che aveva custodito gli orinali della famiglia, navigava e galleggiava nella
tazza di Limoges la dentiera. Sul marmo due scatole di medicinali, una
pettinessa con un filo grigiastro intrecciato, una lampada con abat-jour in
vetro verde.
Ancora un
ronfo, un altro, un altro ... Il tempo
era contro di lui. Cominciò a sentire il tic tic del piccolo orologio di ferro
smaltato semisepolto dai farmaci. Poi sentì le pulsazioni del suo stesso cuore:
vuo, vuo, vuo ... un soffio ripetuto lungo il collo e alle tempie.
Vuo, vuo,
no, no, no ....
Si irrigidì,
digrignò i denti rumorosamente, strinse forte il pugno guantato che impugnava
l'arma e con un grido ...
se la immerse nella bocca dello stomaco a cercare il proprio cuore disperato.
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